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Wanderlust

Dalla depressione da rientro, alla sindrome del viaggiatore eterno

Wanderlust, dal tedesco wander (vagabondare) e lust (ossessione, desiderio), in italiano “Dromomania”, sebbene qui acquisti una concezione più disfunzionale del termine (la tendenza ossessiva a camminare senza una meta precisa). Il primo uso documentato del termine in inglese risale al 1902 e faceva riferimento a una predilezione a vagabondare.

Nel Satyricon, romanzo di Petronio (I secolo d.C.), il viaggio assume la forma di un affannoso vagare labirintico, senza etica né morale; È una storia in movimento in cui i protagonisti sono spinti dalla continua volontà di spostarsi e hanno una propensione quasi istintiva e irrazionale al viaggio.

Ma sul viaggiare come condizione esistenziale più che trascendentale, ne troviamo traccia ancor prima, nell’epoca preistorica, quando gli uomini vivevano dentro tende leggere e si spostavano ogni anno. In una recente ricerca apparsa sul Huffington Post, l’attivista Garret Lo Porto conferma l’ipotesi di una mutazione genetica che risale ai tempi del Neanderthal e che portava l’uomo ad avere un comportamento “completamente fuori controllo”.

Oggi un wanderluster si riconosce dal tempo che passa sui motori di ricerca o dal fatto che non ripone mai veramente la valigia. Il viaggiatore eterno si cela fra i corpi addormentati nei terminal degli aeroporti o sulle poltroncine dei treni, negli alberghi, ostelli, tende, case altrui. Sul cellulare di un vero wanderluster non mancano App di compagnie aeree, hotel e mappe, così come le guide turistiche negli zaini. Lo si riconosce dai timbri sul passaporto o dallo sguardo che esprime curiosità per tutto quello che è diverso e, al tempo stesso, terrore all’idea di relegare la propria esistenza ad un unico posto.

Spesso lo riconosciamo dietro affermazioni come queste: “Mi sono licenziato da un posto di lavoro fisso, ho venduto tutto e sono partito con un biglietto di sola andata; da quel giorno non sono più tornato a casa, non ho un indirizzo fisso e cambio città quando ne sento il bisogno”… una sindrome non da tutti, infatti, a “soffrirne” sono davvero in pochi.

Ma cosa c’è dietro questa irresistibile desiderio/bisogno di spostarsi?

In psicologia la sindrome del Wanderlust è assimilabile a un’intensa esigenza di sperimentare l’ignoto, affrontare sfide impreviste, conoscere culture sconosciute, farsi guidare dal desiderio di fuggire lasciandosi indietro i sentimenti negativi. C’è chi ha definito il Wanderlust una vera e propria malattia perché chi l’accusa sta male fisicamente e psicologicamente quando non può viaggiare, per questo è anche chiamato il “mal di casa”, in altre parole la sofferenza che si prova quando si è costretti a stare a casa con la consapevolezza che fuori c’è un mondo da scoprire.

Recenti studi scientifici hanno validato le ipotesi che i malati di viaggi sono tali perché ce l’hanno scritto nel DNA: sembra che il trovarsi a proprio agio nell’avventura e non nella routine dipenda da un gene, il DRD4-7R, denominato appunto, il gene Wanderlust (ricerca pubblicata sulla rivista “Evolution and Human Behaviour”) . Dietro la voglia perenne di viaggiare c’è quindi un derivato genetico del gene DRD4 che è associato ai livelli di dopamina nel cervello, l’ormone che svolge un’azione fondamentale nel determinare gli equilibri dell’umore. L’entusiasmo e l’emozione che si provano prima di intraprendere un viaggio o di avventurarsi in mete sconosciute potrebbero essere solo un effetto di questa particella cromosomica.

David Dobbs della National Geographic, sostiene che il gene viaggiatore appartiene a persone che sono “più predisposte al rischio, a esplorare nuovi posti, cibi, idee, relazioni, droghe o opportunità sessuali”. Inoltre il gene non è presente in tutti: solo il 20% della popolazione ce l’ha, ed è più comune nelle regioni in cui il passato e la storia hanno spinto i popoli a migrare.

Chi è affetto da tale sindrome investe i propri guadagni in viaggi, ovunque fa nuove conoscenze e ha sempre la valigia pronta. Diciamo che è una sindrome che piacerebbe avere a molti … Walt Whitman sosteneva che l’uomo deve essere vagabondo, e che se è impossibilitato a farlo per qualche ragione, che almeno fugga con l’immaginazione!

Dott.ssa Elena Albieri

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