Quest’epoca è forse quella che sarà maggiormente ricordata come quella della sovraesposizione, del bisogno di apparire a tutti i costi. Dilaga un’esigenza compulsiva di mostrarsi, di parlare di sé, di postare le proprie foto, di pubblicare frasi celebri e immagini che più ci rappresentano.
Godere di quei momenti di celebrità serve a fissare un tassello nella costruzione della propria immagine esterna e, come “oggetti” in vetrina, l’io necessita di un riscontro, di un riconoscimento del proprio valore (ti piaccio? like/unlike).
Cosa si cela dietro questa massiccia espressività? Che cosa va a nutrire il bisogno di riconoscimento?
Questo bisogno di essere visti rivela una costante ricerca di identità, una conferma che fa parte di un processo che non si arresta mai e che viene tamponato da una illusoria sensazione di esistere.
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Parliamo di autostima o stima di sé.
In psicologia l’autostima è la valutazione positiva o negativa che si dà di sé e comprende tre aspetti: cognitivo, che fa riferimento all’opinione che ognuno si costruisce di sé; emotivo, che si riferisce a ciò che ciascun prova nei propri riguardi e comportamentale, che si riferisce a come ci si comporta verso se stessi. Da dove ha origine questa percezione soggettiva?
L’autostima si costruisce a partire dai primi giorni di vita del bambino e riguarda (guarda un po’) il rapporto che i genitori instaurano con lui. È, infatti, nei primissimi anni di vita, a partire da quelle primarie risposte di amore e approvazione che le figure significative saranno capaci di offrirgli, che il bambino inizia a farsi un’idea di sé e del proprio valore.
Le teorie psicodinamiche, affermano che se i bisogni del bambino vengono soddisfatti, egli vive un’esperienza di benessere e di gratificazione e si genera un’autostima positiva; quando questo non avviene egli vive uno stato di frustrazione e si costituisce come individuo con un’autostima fragile. Viene da se che, se la relazione genitore – bambino è “sufficientemente buona”, il piccolo introietta un senso di sicurezza e di fiducia, altrimenti s’innesca un’escalation di ricerca di affetto e di conferme del proprio valore che non troverà mai pace. Possiamo quindi affermare che quando il legame di attaccamento con la figura di accudimento primaria è adeguato, il bambino sviluppa un’immagine di sé positiva e schemi mentali che utilizzerà come base per i rapporti interpersonali futuri.
Alcuni contributi della psicologia sociale identificano nell’autostima il rapporto fra Sé percepito e Sé ideale, in altre parole il rapporto tra ciò che siamo e ciò che pensiamo di essere. In base alla convergenza o meno tra questi, proveremo frustrazione o soddisfazione. Più è ampio il divario e più bassa sarà la stima di sé, mentre l’alta autostima è legata al successo inteso come capacità di esaudire le proprie aspettative.
Secondo la psicologia dello sviluppo l’autostima si apprende e si costruisce nel tempo. Ciò implica che essa è suscettibile di andare incontro a modificazioni, è possibile, cioè, che si apprendano comportamenti e schemi di pensiero nuovi, sulla base di una profonda conoscenza di sé stessi. Una bassa autostima non è quindi una condizione immutabile e permanente, è piuttosto un segnale di allerta che ci indica che stiamo trascurando la nostra vera essenza, i nostri reali bisogni e sentimenti.
Una sana autostima contribuisce, inoltre, a rafforzare la resilienza di una persona, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
L’autostima è sicuramente un indicatore generale della salute psicologica dell’individuo, ha un’influenza sullo stato emotivo globale, che a sua volta influenza la motivazione e gli interessi.
Prendendoci cura di essa, creiamo un fattore protettivo dagli eventi stressanti e dolorosi.
Dott.ssa Elena Albieri
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